• Éditions passées

Dove bisogna stare

Daniele Gaglianone, Stefano Collizzolli

(Italia, 2018 / 98 min)

Quattro donne italiane, di provenienze diverse, sono impegnate, a titolo volontario, nell'accoglienza dei migranti: Lorena, pensionata di Pordenone, aiuta come può dei pakistani nascosti in rifugi provvisori; Elena, in un paese vicino della Val di Susa, ospita in casa un ragazzo che ha attraversato a piedi nudi sotto la neve la frontiera; Jessica è tra i responsabili del centro sociale Rialzo di Cosenza; a Como Elena cerca ospitalità e fornisce informazioni pratiche agli immigrati.

Continua a leggere

Eldorado mi ha colpito molto: ritengo che dovrebbe essere più conosciuto perché farebbe comprendere a molte persone ciò che accade in Italia. Inoltre, il film coivolge grazie all’intrecciarsi di due storie tra il passato e il presente. (Emilia Abellonio, Liceo Statale "Aprosio", Ventimiglia)

Eldorado di Markus Imhoof inizia da un'esperienza passata del regista: durante la seconda guerra mondiale, la Croce Rossa svizzera offriva aiuto ai bambini vittime della guerra e i suoi genitori accolsero una rifugiata italiana di nome Giovanna. Questi ricordi lo hanno spinto a partire per l’Italia e a indagare l’attuale situazione dei rifugiati ripercorrendo un tragitto che parte dalla Libia e giunge sulle nostre coste, dove chi arriva trascorre mediamente tra gli 8 e i 15 mesi in campo profughi o cerca di raggiungere altri paesi europei. Il viaggio di Imhoof approda infine in Svizzera, da dove era partito. Il regista struttura il film in due momenti: il suo passato e ciò che invece succede oggi ai migranti. Quello che il regista vuole sottolineare attraverso questa scelta è che non vi sono molte differenze tra i due racconti. Trovo questo film molto interessante, soprattutto per la scelta delle tematiche attuali che trasmettono al pubblico informazioni ma anche sensazioni emotive. (Gaia Casse, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Eldorado offre uno sguardo sincero sulla scomoda realtà, che non permette di fuggire sul barcone dell’indifferenza. Markus Imhoof, il regista, tenta di legare la vita di ogni migrante alla salda ancora della denuncia. Quella di Imhoof è una voce di accusa, in bilico tra l’autobiografia e il documentario, che proietta sul presente il dramma dei profughi della Seconda guerra mondiale. Eldorado è intreccio di itinerari e vite eroiche. (Elisa Francesconi, Liceo Statale "Aprosio", Ventimiglia)

Eldorado è un film-documentario del 2018 diretto da Markus Imhoof che, oltre a rivestire il ruolo di regista, è la voce narrante del lungometraggio. In questo documentario sono ricostruite le varie parti del “viaggio della speranza” che compie un migrante in fuga dal proprio Paese. Il film inizia però con immagini in cui il regista ricorda, attraverso i suoi occhi di bambino, l’arrivo nella propria famiglia di una ragazzina immigrata dall’Italia nel periodo della Seconda Guerra Mondiale: ci mostra foto, lettere e documenti di questa “sorella” italiana. Eldorado è un documentario che potrebbe essere definito un ‘delta interpretativo’: da un lato potrebbe sensibilizzare chi non ha una profonda conoscenza in materia (uno studente come me, ad esempio); contemporaneamente potrebbe però suscitare sentimenti negativi da parte di coloro che non vedono di buon occhio il fenomeno dell’immigrazione (dei cosiddetti “altri”). (Giorgia Cerrato, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Eldorado tratta del rapporto tra l’io e gli altri. Alterna i ricordi d'infanzia e di guerra del protagonista in Svizzera alle difficili condizioni degli sbarchi nel Mediterraneo odierni. L’immigrazione è dunque trattata non solo per come si presenta nel periodo delle riprese ma anche risalendo indietro nel tempo alla storia della giovane Giovanna, italiana rifugiata presso la famiglia del regista durante la seconda guerra mondiale. L’assenza di musica e la lentezza della narrazione danno la possibilità allo spettatore di riflettere sulle scene, spesso forti, presentate. Le riprese sono fatte con macchine a mano nelle situazioni di maggior pericolo e di impossibilità di portarsi appresso grandi troupe, come nei centri di accoglienza per rifugiati o nei campi di pomodori in cui questi lavorano. Imhoof sceglie comunque di mostrare i divieti che ha ricevuto nel filmare determinate situazioni così da rendere il documentario ancora più reale. Le interviste sono brevi e frammentate ma, con poche domande, il regista riesce a raccontare tutta una serie di situazioni. Personalmente, ho apprezzato il recupero del passato del protagonista e la ricerca del materiale quasi da reportage anche se le riprese e il montaggio sono durate ben quattro anni. (Margherita Bouvier, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Il film documenta alcuni salvataggi di persone che hanno attraversato il Mediterraneo per giungere sulle coste italiane, in cerca di una vita migliore: donne e uomini in evidente stato di shock, donne incinte in avanzato stato di gravidanza, bambini, anche molto piccoli, non accompagnati dai genitori, che hanno viaggiato su imbarcazioni, per esempio gommoni, in condizioni precarie. Il regista descrive molto dettagliatamente ogni operazione svolta dalla guardia costiera e dai medici a bordo delle navi. Ho visto numerosi documentari, film o servizi televisivi nei quali si trattava dell’immigrazione e del salvataggio dei migranti ma nessuno mi ha mai colpito come Eldorado. Sono rimasta davvero affascinata: non avevo mai visto all’interno una nave di salvataggio, la sistemazione delle persone, i controlli medici a cui i profughi sono sottoposti. Non avevo mai visto la  stanchezza negli occhi, nel volto e nel corpo di una persona nel modo in cui la mostra il regista. Questo documentario mi è piaciuto moltissimo perché rappresenta la realtà per quella che è. (Alessia Contino, Liceo Statale "Aprosio", Ventimiglia)

Eldorado è un viaggio attraverso diverse situazioni culturali legate all'emigrazione e presenta una struttura ad anello. Infatti, la storia ha inizio nel passato in Svizzera e si conclude oggi nello stesso Paese. Il film documentario ci permette di addentrarci in realtà che in genere non si potrebbero osservare. Difatti, il regista Markus Imhoof, ci offre anche immagini ‘rubate’ nei campi profughi, spesso riprese con l’utilizzo di macchine mobili, per permettere allo spettatore di sentirsi il più partecipe possibile. Lo sguardo del regista si sofferma sui primi piani dei migranti, sui loro sguardi, su dettagli o scene del mare aperto per mettere in evidenza la sua immensità: non sono necessarie parole per raccontare tutto ciò che hanno dovuto subire in un viaggio senza certezze. (Caterina Traversa, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Eldorado rappresenta aspetti non sempre noti dell'immigrazione, come ad esempio le procedure per essere schedati oppure l'arrivo in campi di accoglienza o addirittura le baracche dove sono costretti a vivere coloro che sono vittime di raggiri mafiosi. (Luca La Mura, Liceo Statale "Aprosio", Ventimiglia)

Markus Imhoof è riuscito a mettere a nudo la crisi umanitaria di oggi partendo dai ricordi della sua infanzia. Dal susseguirsi di ogni fotogramma del suo film emerge il racconto di un dramma che troppo spesso si tace per convincersi che viviamo in un mondo perfetto, che, come vuole dimostrare Eldorado, non esiste. Come un secchio di acqua gelata, un violento schiaffo, questo documentario ci risveglia dalla nostra apatia, dalla nostra meschina, falsa e del tutto inesistente compassione, dal nostro troppo egoismo che logora noi e la società in cui viviamo. (Elena Rambaldi, Liceo Statale "Aprosio", Ventimiglia)

Il documentario Eldorado di Markus Imhoof ci mostra la vita dei rifugiati e dei migranti al giorno d’oggi con un occhio di riguardo al passato. Il regista svizzero ha vissuto in prima persona, durante la Seconda Guerra Mondiale, il contatto con un “rifugiato” e in onore della sua Giovanna, sorella “adottiva” italiana, compie un percorso volto alla documentazione, analisi e confronto del viaggio dei migranti, della loro sofferenza, del loro inserimento nella società e di tutte le loro difficoltà. Il regista opera, per buona parte del film, un confronto fra oggi e ieri: con l’emozione della prima volta, ritocca lettere e ricordi del suo passato, facendoci sentire, in sottofondo, la voce della sua Giovanna, che strazia la narrazione; siamo come coccolati da questa voce, affascinati, forse, nello stesso modo in cui lui ne è stato sedotto. Senza musica, con pungente sobrietà, il film diventa un misto tra l’autobiografia del regista e il diario di viaggio di tanti altri protagonisti. L’operatore di molte scene è lo stesso Imhoof, con la macchina a mano, che interagisce con gli intervistati, vede e sente, in prima persona, il dolore del viaggio e della solitudine che, probabilmente, ha provato anche la sua Giovanna. Il continuo confronto con il passato è originale e innovativo. Nel corso di quattro anni, il regista ha raccolto tantissimo materiale e ha poi deciso scrupolosamente le immagini da mostrarci per seguire un filo narrativo e per farci vedere la realtà che, molti, a partire da me, non hanno mai visto o a cui forse non hanno mai prestato attenzione. Per esempio oggi, scendendo dal treno, ho visto due ragazzi africani vestiti leggeri, con la maglietta sporca di vernice, e subito, grazie al film, ho ricordato le immagini del viaggio difficile e doloroso che magari questi due ragazzi hanno alle loro spalle. (Rachele Russo, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Stiamo raccogliendo le critiche scritte dagli studenti delle scuole di Oulx e Ventimiglia, che hanno partecipato al Progetto Spaesamenti. A breve saranno disponibili sul sito.

Libre racconta la storia di Cedric Herrou, contadino della val Roia, che si trova a offrire ospitalità, vitto e alloggio, a varie centinaia di migranti, nel corso degli anni. Cedric è un anarchico ma sostenitore del rispetto delle leggi, rispetto che lui si promette di mantenere se anche lo Stato (“perditempo”, come lo definisce) non lo mantenga nei confronti dei migranti e di chi, nei limiti dei propri mezzi, li aiuta. Durante gli anni in cui il documentario lo segue, Cedric deve combattere varie battaglie, aggirare posti di blocco della polizia, viaggiare di notte, camminare per giorni interi per arrivare a Nizza. E oltre tutto viene processato varie volte in tribunale, con esiti positivi o negativi, senza mai demoralizzarsi. Presentandosi sempre sicuro davanti alle telecamere, si dichiara non impaurito di finire in prigione, ma, anzi, sempre libero “di testa” e pronto a combattere per la libertà, quanto e quando sia necessario. Michel Toesca dirige il documentario con spirito vivo, anche se non ho apprezzato molto le ellissi temporali, che disorientano un po’ lo spettatore. Libre è un film che fa pensare, soprattutto quando a parlare sono proprio i migranti, come il ragazzo che racconta la sua storia o la donna incinta che racconta la sua fuga. (Rachele Russo, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Mix-Up ou Méli-Mélo è il titolo del primo lungometraggio della regista francese Françoise Romand, un esordio che sovverte e trascende i canoni del documentario, come Romand farà più volte nel corso della sua carriera. È la storia di uno scambio in culla avvenuto nel 1936 in Inghilterra, tratteggiata dalle voci alternate dei signori Rylatt e Wheeler, coinvolti personalmente nella vicenda. Trascorsi vent’anni dall’evento che lega indissolubilmente le due famiglie, la verità viene a galla e con lei trovano finalmente pace i sospetti riguardo al presunto scambio. Il filo rosso del documentario è il doppio, che si innesta come elemento di unificazione e scissione dei destini narrati, ma che è, al tempo stesso, un elemento visivo ricorrente in un’opera costruita per simmetrie e binarismi, in cui il francese si alterna all’inglese, il blu è accostato al rosso e così il documentario si scosta e si avvicina al surreale. Alla ripresa frontale è affidato il compito di seguire i soggetti che si perdono e si ritrovano nei riflessi degli specchi e dei vetri. Con spirito ironico e poetico, la regista delinea un universo di affetti e relazioni composito e frammentato: il nostro. (Classe 4L, Liceo Statale “Aprosio”, Ventimiglia)

In Mix-up ou Méli Mélo Francoise Romand dà la parola ad alcuni componenti delle due famiglie, il cui scopo è quello di raccontare la vita di due ragazze inglesi che, appena nate, sono state scambiate per sbaglio in un ospedale, e che scoprono molti anni più tardi che non sono state cresciute dai loro genitori biologici. Le persone sono riprese frontalmente. Tutti gli elementi formali del film vertono molto sul tema del doppio e dello scambio, ma anche sul rapporto tra le cose passate e quelle presenti. Viene spesso fatto utilizzo degli specchi e delle ombre. Per esempio mentre un uomo anziano attraversa l’inquadratura si può notare la sua ombra sulla parete a cui è appeso un quadro che lo ritrae, o quando la sua immagine viene riflessa su uno specchio e l’uomo commenta sorpreso: ”Sono io”. Quindi è come se lui scoprisse la sua figura senza però riuscire a identificarla del tutto. (Stefan Markovic, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Per introdurre personaggi legati agli eventi, ma che non appartengono alla famiglia, decide di farli parlare da un double-decker bus, che viene usato come un simbolo di passaggio: infatti queste persone sono “salite” e poi “scese” dalla vita delle protagoniste. Inoltre, la regista gioca molto sui riflessi (es. specchi) e sulle prospettive e fa riferimenti all’arte, in particolare alla fotografia, e forse anche a quadri (come il dipinto American Gothic che la regista sembra ricreare con i suoi personaggi). Ne risulta un film molto statico e molto particolare, adatto a un pubblico ricercato. Ho trovato anche insolito che una regista francese abbia fatto un film su una famiglia inglese in Gran Bretagna. (Gaia Casse, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

La regista, in ampi tratti della pellicola, sembra anche svolgere la funzione di fotografa: si sofferma sui minimi particolari, specialmente per quando riguarda le inquadrature delle persone, quasi esclusivamente primi piani, per porre al centro dell’attenzione il personaggio che in quel momento sta parlando. Ciò permette di capire le varie emozioni e sensazioni che i personaggi hanno provato nel vivere gli avvenimenti narrati. Con l’uso di questa tecnica però viene meno la dinamicità del film, essendo la scena prevalentemente statica. Per quanto riguarda l’aspetto fonico, i vari suoni e le musiche hanno ognuno una funzione particolare che mette in risalto una determinata situazione e che li rende molto più che un contorno delle scene. (Enrico Goffi, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)

Il film è strutturato come un documentario, nel quale si susseguono le interviste aventi come scopo non solo la narrazione della vicenda ma anche la ricostruzione di alcuni momenti chiave. Soffermandosi sugli aspetti più tecnici del film pare di essere di fronte al lavoro di un fotografo più che di un cineasta. Ogni inquadratura è infatti studiata nel dettaglio e il risultato ottenuto nella maggior parte dei casi è quello di una ripresa pulita, libera da elementi sovrabbondanti o eccessivi; è proprio questa strutturazione dello spazio filmico che rende diverse inquadrature rassomiglianti a dei quadri. Attraverso questi accorgimenti tecnici Françoise Romand vuole trasmettere non solo un semplice avvenimento, un fatto di cronaca: ella cerca di andare oltre e presentare anche le sfumature psicologiche dei protagonisti del film, evidenziando in particolar modo i differenti approcci delle due madri. Molto interessante l’uso che Romand ha fatto della musica in tale film: essa non svolge quasi mai la funzione di semplice sottofondo, al contrario ricopre una posizione decisamente importante, centrale in diverse scene. Tale compito è stato affidato al musicista Nicolas Frize. (Jean François Col, Liceo Statale “Des Ambrois”, Oulx)